
“Premettendo necessariamente che si sta parlando di fatti tutti ancora da accertare e di persone sulle quali, pende un gravissimo quadro indiziario, ma verso le quali sono ancora in corso indagini, quello che sarebbe avvenuto a Melito Porto Salvo ha poco dell’abuso sessuale vero e proprio”
COSENZA – L’avvocato penalista e criminologa cosentina, Chiara Penna, interviene con una riflessione ampia sul caso di cronaca che ha sconvolto tutti i calabresi e che ha creato indignazione e sgomento. “La violenza di gruppo della quale sembra essere stata ripetutamente vittima la ragazzina – commenta l’avvocato Penna – non è determinata infatti, da una mancata inibizione della libido dei soggetti oggi accusati, bensì da una forte carica di aggressività extrasessuale e da una motivazione ludica, oltre che da una manifestazione di potere. E ciò, purtroppo, per una ragione semplice: nella violenza sessuale mossa dal branco (che non a caso vede sempre più spesso protagonisti soggetti giovanissimi) quasi mai c’è una coincidenza di raptus erotici, piuttosto c’è una convergenza di decisioni che manifestano solo e soltanto un disprezzo assoluto per la vittima”.
Una vittima che lo ricordiamo, secondo l’accusa mossa contro il gruppo di ‘stupratori’, sarebbe andata avanti per anni, dietro le minacce.
Chiara Penna, ha commentato la vicenda ai microfoni di Rlb Radioattiva sottolineando aspetti importanti della vicenda
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“Proprio per tale ragione – commenta la criminologa cosentina – la violenza sessuale di gruppo è un’azione da considerarsi socialmente più pericolosa rispetto allo stupro singolo, ed il maggior disvalore è evidente non solo dal diverso trattamento sanzionatorio, ma anche dal fatto che, per far sì che si realizzi il reato in questione, non è necessario che ciascun soggetto del gruppo compia dei veri e propri atti sessuali, ma è sufficiente che abbia dato il proprio contributo anche solo nell’adescamento”.
La mancata reazione ‘sociale’
“Quanto alla poca vicinanza manifestata nei confronti della vittima e a certe affermazioni apparse su alcuni organi di stampa – commenta ancora Chiara Penna – secondo le quali la ragazzina avrebbe avuto una qualche forma di “responsabilità” nell’accaduto, se fosse vero, un atteggiamento allarmante di questo tipo fa pensare alle comunità tribali – da intendersi quelle che vedono i diritti collettivi soppiantare quelli individuali – che per paura dell’onore leso impediscono persino alla vittima di fuggire e conseguentemente cospirano al fine di ostacolare le investigazioni di polizia”.
“In criminologia esiste una specifica branca di studio che si chiama vittimologia e che analizza come il comportamento del criminale e della vittima si influenzino reciprocamente; ma non nel senso di conferire a chi subisce atti penalmente rilevanti una qualche forma di responsabilità, bensì nell’ottica di individuare situazioni con chiare potenzialità vittimogene. Pertanto, se quanto accaduto alla ragazzina in questione risultasse riscontrato, è evidente come la responsabilità di quanto verificatosi vada attribuita, più che alla minore, in qualche modo all’intera comunità che evidentemente era già da tempo al corrente delle violenze perpetrate. Il mancato riconoscimento della qualità di vittima da parte della comunità di appartenenza – conclude l’avvocato Penna – è, infatti, pericoloso tanto quanto la violenza subita poiché aumenta la frustrazione e distrugge l’immagine che la persona ha di sé creando forme di vittimizzazione secondaria”.
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