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Natale calabrese, convivialità tra cibo, riti e consuetudini. Viaggio nelle tradizioni servite a tavola

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C’è un atteggiamento verso il cibo della popolazione calabrese che rimanda a riti sacri e antichi, che vengono da tradizioni secolari. Esiste, infatti, un forte legame tra l’alimentazione e la vita spirituale: ogni festa, ogni ricorrenza aveva in Calabria il suo cibo di riferimento, legato al collegamento con il divino e a ogni evento che caratterizza la vita della famiglia.


In passato, il fattore alimentare determinava un calendario rigoroso delle ricorrenze e del cibo a esse intimamente legato e giocava un ruolo di primo piano nei riti religiosi e di origine pagana: dal Natale alla Pasqua, passando per i menù previsti per l’Epifania e il Carnevale.
Il rigore di questo calendario con il passare dei secoli si è in qualche modo attenuato, ma ha lasciato però riferimenti evidenti nello stile alimentare dei calabresi.

Il periodo di Natale

Durante il periodo che precedeva il Natale, in tutta la Calabria abbondavano le fritture di cibi di pasta di pane e si preparavano dolci tipici diversi secondo le zone della regione.
Uno dei più tradizionali, che ancora oggi si prepara in abbondanza, è un dolce assai calorico chiamato pitta nchiusa, nei comuni della Calabria centrale o pitta mpigliata in quelli dell’alta Calabria. La sua preparazione prevedeva (ancora oggi) tra gli ingredienti base farina, vino, olio d’oliva, zucchero, miele, spezie, uva passa e noci.

Pitta m'pigliata
Un altro tipo di dolce natalizio era costituito dalle crucette, fatto di fichi secchi incrociati riempiti di noci, mandorle, scorza d’arancio, dai tardilli, così chiamati nella Calabria centrale, o turdilli o cannariculi, nei paesi della provincia di Cosenza o turtiddi o pignolata nel reggino.

crocette-di-fichi-calabresi

I dolci erano preparati con farina e miele. Nelle varie zone variava la consistenza dell’impasto e l’eventuale utilizzo del tuorlo d´uovo, del vino (rosso, bianco o moscato), o del tipo di miele.

I turdilli hanno costituito sempre una dolce tradizione, soprattutto per quelle famiglie che potevano mangiarli solo nei giorni di festa e un preciso rimando, come hanno scritto alcuni storici, alla preparazione delle offerte votive destinate agli dei venerati dai Romani. Nelle comunità di origine straniera, come quella albanese ad esempio, nei giorni precedenti il Natale si preparavano dolci fritti nell’olio, chiamati Krustulit, Kulecet, Skallitel, e Kunfet, preparati con farina, uova, zucchero, miele e lievito.

turdilli

La cena della vigilia di Natale

La vigilia di Natale, vista come la ricorrenza festiva più ricca dell’anno, richiedeva una lunga preparazione che poteva durare anche tutta la giornata. Nel menù non era prevista la carne che andava invece mangiata al pranzo di Natale.
Era consuetudine cucinare tredici pietanze (come il numero degli apostoli con Gesù all’ultima cena), o nove (come i mesi di una gravidanza), come avveniva in alcuni paesi della provincia di Cosenza, o addirittura venticinque, come si faceva in paesi del catanzarese.

Il menù doveva obbligatoriamente prevedere piatti con ortaggi di stagione, pesce azzurro fresco o essiccato. Erano preparati anche funghi e si mangiavano, a fine pasto, lupini, castagne, arance, mele e dolci della tradizione.
A Cosenza e nei paesi della Sila e della presila era tradizione poi preparare la pasta mullicata, fatta con mollica di pane fritta, acciughe o sarde. In alcuni paesi della provincia di Cosenza, come ad esempio Ad Aprigliano, era molto diffusa anche la preparazione di frittelle realizzate con pomodori, zucche e altre verdure, conservati nei mesi precedenti.

pasta-con-mollica

Il pranzo di Natale

Il pranzo di Natale invece era a base essenzialmente di carne, con un primo costituito dalla pasta al forno preparata, come da tradizione, con uova, salsiccia, soppressata e polpettine di carne, con un secondo di capretto o agnello accompagnati da patate, legumi e ortaggi vari, carne di maiale arrostita o conservata.
Anche in quest’occasione era presente la frittura di paste di farina lievitata, con o senza aggiunta di patate nell’impasto, con un eventuale ripieno di alici o sarde sotto sale.
Queste fritture, a volte nella versione dolce con zucchero o miele, erano chiamate con nomi diversi in base alle zone di produzione: crispelle o grispelle o crustuli o pitte fritte nella Calabria centrale, zzippuli, nei paesi del reggino o come nella provincia di Cosenza cudduriaddhi.

cudduriaddhi

La notte di San Silvestro

Nella cena dell’ultimo dell’anno, in molte zone della Calabria, era prevista la preparazione di un piatto con le lenticchie, con o senza carne. La tradizione non prevedeva gli abbondanti cenoni che il consumismo degli ultimi decenni passati ha imposto, ma favoriva soprattutto le occasioni d’incontro e di scambio di manifestazioni augurali.
A rappresentare tale tradizione erano i gruppi di ragazzi che giravano per le strade dei paesi intonando canzoni popolari augurali. Era la cosiddetta strina, intonata davanti alla porta di parenti e amici, i quali in cambio offrivano agli improvvisati musicisti cibo e dolci natalizi.

L’Epifania

Anche in quest’occasione in diverse parti della Calabria era festeggiata la vigilia della festa con abbondanti cenoni (la sera dell’abbondanza), essendo considerata l’ultima occasione di festeggiamento prima di affrontare la stagione fredda. Per alcune popolazioni di rito ortodosso era vietato il consumo di carne.


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